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martedì 18 novembre 2014

UN ARTICOLO DEL SODALIZIO


<< Indietro - Home - Moviola - Oggi alle 09:11

Perche' lui e' Friedrich Walter. Anzi, Fritz Walter.

Friedrich sobbalzò sul letto per un colpo di tosse.

Quella maledetta bronchite, lo stava mettendo troppo spesso in pessime condizioni e anche il cuore ne risentiva.

La luce che filtrava attraverso le tende della camera si posava sui cimeli della sua gioventù, ricordi di un'altra epoca e di un'altra epica. Si alzò, e dopo qualche passo strascicato con le pantofole di pelle scura, appoggiò i palmi delle mani sul davanzale e distinse la sua faccia riflessa nel vetro della finestra prima di intravedere in lontananza la cupola d’ardesia della Chiesa di Alsenborn ormai libera dalla neve dell’inverno.

Si riconobbe. Non era poco, in fondo.

Riconobbe il naso grosso, le sue rughe e la sua malinconia.

Avrebbe venduto l’anima al primo diavolo per poter salire quella sera la collina di Betze, scendere nella pancia dello stadio seminascosto dal verde dei boschi, rimettersi la maglia aderente, infilarsi le scarpette tirate a lucido e gettarsi in campo ancora una volta come lo aveva fatto per ventiquattro anni filati con il Kaiserslautern.

Ja, Kaisersalutern. Città tipicamente tedesca della Renania. Industrie meccaniche, tessili, legno, odore di buoni sigari e, naturalmente, birra.

“Fritz non scendi a vedere la partita?”

La voce è quella di sua moglie. Italia.

Lei è italiana, e i genitori in uno slancio patriottico pensarono bene di chiamarla come la loro terra.

Italia Walter.

Perché lui è Friedrich Walter. Anzi, Fritz Walter.

Una volta in un tema di classe uno scolaro scrisse che la città di Kaiserslautern, settanta chilometri da Magonza, venne fondata da Fritz Walter.

In fondo non aveva tutti i torti.

Fritz Walter era diventato una sorta di figura mitica, non solo in termini calcistici, un simbolo di rinascita e di rivendicazione della Germania sconfitta, ferita e umiliata dai bombardamenti. Ambasciatore sportivo, capitano della nazionale tedesca e luogotenente del leggendario allenatore Sepp Herberger, con il quale mise a punto la squadra del "Miracolo di Berna" del 1954, vincitrice della Coppa del Mondo. Nato all'ombra della "Grande Guerra" a Alsenborn, cittadina oggi riunificata con il villaggio di Enkenbach, venne battezzato con il nome di Friedrich Walter, anche se fin da piccolo tutti lo chiamarono naturalmente e semplicemente "Fritz".

“No, non vengo, non me la sento, dopo mi dirai come è andata.”

Settantasei anni e non sopportare più le emozioni del calcio. Forse della vita.

Quel pomeriggio di maggio del 1998, battendo in casa il Wolfsburg per 4 - 0, con doppiette di Olef Marschall e Martin Wagner il Kaiserslautern divenne ormai irraggiungibile per gli inseguitori. Quattro punti di vantaggio sul Bayern, che non riuscì ad andare oltre uno stentoreo pareggio per 0-0 a Duisburg.

Era la prima volta, da quando fu fondata la Bundesliga nel 1963, che una società neopromossa riusciva a vincere il Meisterschale. I "diavoli rossi", allenati da Otto Rehhagel, con il redivivo Ciriaco Sforza in cabina di regia, festeggiarono davanti a 38.000 spettatori.

E pensare che se non fosse stato per l’attento speaker dello stadio, forse quella sera l’FCK 1900 avrebbe potuto anche non farcela.

“Otto, conta gli stranieri”:

Gracchiò, l’altoparlante poco prima del calcio d’inizio di una partita di qualche sabato precedente.

E in effetti i forestieri in maglia rossa erano più di quelli previsti dalle regole.

Cosicché fra il borbottio del pubblico, occhiatacce e frenetica agitazione, il K’lautern rimediò a un inopinata figuraccia con annesso sconfitta a tavolino, che poteva pregiudicare davvero l’ottimo lavoro svolto fino a quel momento dal tecnico di Essen, iniziato fra l’altro nel migliore dei modi in agosto, quando alla prima di campionato, i “Die Roten Teufel”, avevano subito piegato gli eterni protagonisti della Baviera con un gol del “Maresciallo” Olaf, e Otto si era preso una bella rivincita con la squadra che lo aveva licenziato appena due anni prima.

L'FCK alzò gli scudi davanti all’estremo Andreas Reinke con difensori nodosi e caparbi come Harry Koch, l'industrioso Martin Wagner, il gigante ceco Miroslav Kadlec e l'implacabile danese Michael Schjønberg. A centrocampo lo svizzero Ciriaco Sforza, il cui nome evince origini piuttosto insulari, era figlio infatti di un imbianchino italiano emigrato in cerca di fortuna. Sforza reduce da un esperienza non troppo gratificante a Milano con la maglia dell’Inter, tornò a impartire ordini e disegnare geometrie.

La palla tornò ad ubbidirgli ciecamente.

Lo sostenevano due ali come Andreas Buck e il brasiliano Everson Ratinho, unite alla qualità e al talento di Marco Reich, e del giovane Michael Ballack che avrebbe fatto la fortuna di Goethe ancor più delle epistole di Werther.

Davanti, tre interruttori accesi senza soluzione di continuità: Olef Marshall, il ceco Pavel Kuka e il bulgaro Marian Hristov.

“Gol- Gol- Gol- Gol”

Ripeteva Italia, nel salotto di casa Walter.

E per ogni marcatura a Fritz scendeva una lacrima.

Simone Galeotti




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